Quando i Vandali devastarono la città di Nola, molti abitanti furono catturati e inviati in Africa. Fra questi vi era il figlio di una povera vedova che si rivolse al vescovo perché l’aiutasse a riavere il figlio. Ma Paolino non sapeva che fare: aveva ormai speso tutto quel che possedeva per riscattare una parte dei prigionieri e per aiutare le famiglie più sfortunate. Commosso dalle lacrime della donna, decise di offrire se stesso al re dei Vandali che accettò lo scambio.
Paolino restò in Africa come giardiniere, conquistando a poco a poco la simpatia dei cortigiani e poi dello stesso re al quale un giorno rivelò la sua identità. Venne subito liberato ottenendo anche la liberazione dei nolani che ancora erano prigionieri.
Quando si diffuse la notizia del suo arrivo, la popolazione commossa e festante corse verso il mare per festeggiarlo e, non avendo niente da offrirgli come dono, colse strada facendo dei fiori, gigli soprattutto, che trovava nei campi. Quei gigli si sono poi trasformati nei simbolici obelischi accompagnati da una barca che rappresenta il ritorno del santo dalla schiavitù.
Se la leggenda che divulgò san Gregorio Magno non ha alcun fondamento storico perché i Vandali invasero l’Italia nel 455, più di vent’anni dopo la morte di Paolino, la sua fama di vescovo santo e caritatevole non è usurpata. Pontius Meropius Paolinus, così si chiamava, era nato nel 353-355 a Burdigala, l’attuale Bordeaux, da una ricca famiglia senatoriale cristiana che possedeva proprietà in Gallia, Spagna e Italia meridionale. Aveva studiato nella stessa città, uno dei centri culturali più rinomati della Gallia, sotto la guida del celebre poeta Ausonio.
Intorno al 365 il suo maestro venne chiamato alla corte di Treviri come precettore di Graziano, il figlio dell’imperatore Valentiniano I; poi divenne quaestor sacrii palatii e infine praefectus praetoriodell’Italia, Illirico e Africa (378). Grazie alla sua eminente posizione Ausonio favorì probabilmente il cursus honorum del discepolo che divenne senatore e nel 381 governatore della Campania (consularis sexfacalis Campaniae). Siccome Paolino aveva molti possedimenti a Nola, scelse questa città come residenza invece di Capua.
Nei pressi di Nola, a Cimitile, vi era il sepolcro di san Felice, un semplice prete che si era comportato eroicamente nel periodo delle persecuzioni senza subire tuttavia il martirio. In tutta l’Italia meridionale era considerato il santo che proteggeva i poveri, i contadini e addirittura liberava gli ossessi dal demonio. Nel giorno della sua festa, il 14 gennaio, accorreva molta folla dalle campagne circostanti. I contadini portavano, secondo un’usanza pagana trasferita tranquillamente nella nuova religione, un montone o un bue da sacrificare in suo onore; e banchettavano allegramente. Paolino, che aveva ricevuto una blanda educazione cristiana, quasi una cornice formale intorno alla cultura pagana assimilata da Ausonio, fu colpito da quelle manifestazioni di fede. Più tardi, in uno dei suoi Garmina natalicia, dedicati alla festa di san Felice, avrebbe scritto rivolgendosi al santo: «Con tutto il mio cuore mi abbandonai a te e grazie alla tua luce imparai ad amare il Cristo». Sicché non è infondato congetturare che il primo soggiorno nolano segnò l’inizio di un lungo e graduale itinerario di conversione.
Scaduto il mandato, Paolino tornò in Gallia. La carriera politica lo attirava di meno, preferiva dedicarsi agli studi e allo scrivere. Durante un soggiorno nelle sue terre spagnole conobbe una giovane e ricca patrizia, Tarasia, che sposò: un legame che trascolorò negli anni fino a trasformarsi in un rapporto fraterno.
In Aquitania alternava i soggiorni nei possedimenti in campagna a viaggi durante i quali conobbe sia san Martino, che lo guarì da una malattia agli occhi, sia sant’Ambrogio al quale egli diceva in un’epistola di sentirsi obbligato per il nutrimento di fede ricevuto. Cominciava a sentirsi estraneo alle lotte di potere: in quegli anni, dopo la morte di Graziano assassinato dall’usurpatore Massimo, il fratello gli era stato ucciso ed egli stesso aveva salvato a stento parte del patrimonio durante le persecuzioni che avevano colpito gli uomimi legati all’ex imperatore. Con la moglie si allontanò dalla sua patria trasferendosi in Spagna dove lo colpì un’altra disgrazia: la morte dell’unico figlio appena nato. Erano tanti segni che Tarasia e Paolino interpretarono come una chiamata alla povertà, alla rinuncia, alla preghiera. Nel 389 aveva ricevuto il battesimo a Bordeaux; qualche anno più tardi, nel 394 a Barcellona, cedendo alle insistenze della popolazione, fu consacrato sacerdote.
Ma il suo desiderio era di recarsi a Nola, accanto al sepolcro di san Felice, per vivere monasticamente. Non gli fu difficile: nel 395 arrivava nella città campana insieme con la moglie e alcuni discepoli. A Cimitile costruì una chiesetta, poi una seconda chiesa più ampia, e oratori e battisteri: viveva con i compagni in alcune celle presso il santuario astenendosi dalla carne e dal vino, vestendo come i più poveri. Anche la moglie, che si era trasferita nelle vicinanze, aveva accettato di vivere monasticamente. «È mai possibile paragonare qualcuno dei beni che possedevo» scriveva «quando venivo chiamato senatore con i beni di cui godo dal momento in cui vengo chiamato mendicante?»
Ormai componeva soltanto poemi religiosi che spesso narravano la vita leggendaria di Felice, lo esaltavano, ne descrivevano la festa: «La primavera restituisce la voce agli uccelli» scriveva; «e la mia primavera è la festa di Felice. Quando essa ritorna nascono i fiori dell’inverno e rinasce la gioia. Invano le asprezze del freddo induriscono il suolo e imbiancano le campagne; l’allegrezza di questo bel giorno porta a noi ancora una volta la primavera e le sue dolcezze. I cuori si allargano e la tristezza, inverno dell’anima, scompare... Allora anche per me rinasce la primavera; è giunto il momento di far uscire dall’anima i miei voti e le mie preghiere, di far fiorire i miei nuovi canti».
I suoi carmi sono la fonte scritta più antica che possediamo sulla vita di san Felice: probabilmente raccolgono la tradizione orale su un santo torturato in una persecuzione che per alcuni agiografi risalirebbe alla metà del III secolo, per altri invece a quella di Diocleziano. Paolino narrava che Felice era nato a Nola da un padre siriano che si era trasferito in Italia. Alla morte dei genitori aveva rinunciato all’eredità a favore del fratello ed era entrato nel clero di Nola. Quando scoppiò la persecuzione, il vescovo di Nola, Massimo, si nascose in un bosco per sfuggire alle autorità romane, lasciando Felice in città a rappresentarlo. Sicché fu san Felice a essere perseguitato, arrestato e torturato.
Mentre si trovava in carcere, gli apparve di notte un angelo che lo liberò conducendolo fin dal vescovo Massimo che stava morendo di stenti e di fame. Dopo averlo rifocillato con un succo d’uva cresciuto miracolosamente Felice lo riportò a Nola affidandolo alle cure di una signora. La persecuzione si era intanto calmata: ma era una calma apparente. Presto riprese: e Felice venne nuovamente ricercato; tuttavia grazie a un miracolo — gli sgherri che lo stavano cercando lo incrociavano senza riconoscerlo — riuscì a fuggire in un luogo solitario dove una donna gli portava del cibo. Alla fine le persecuzioni finirono e Felice poté tornare a Nola in tempo per assistere alla morte del vescovo. Subito dopo la popolazione che lo apprezzava lo volle come nuovo pastore della diocesi; ma il sacerdote, che non aveva ambizioni, rifiutò la designazione indicando un altro confratello. Trascorse il resto della vita coltivando un campicello preso in affitto per avere un poco di cibo, curando poveri e malati e compiendo molti miracoli.
Paolino intratteneva anche una fitta corrispondenza scrivendo a vescovi come Agostino o Delfino di Bordeaux, a presbiteri, monaci e laici che gli chiedevano delucidazioni, consigli: nel gruppo di lettere che risale a quel periodo sono trattati sistematicamente due temi della sua riflessione, l’amicizia cristiana e il suo ideale di vita ascetica fondato sulla humilitas e sulla paupertas.
Nel periodo in cui i Visigoti invadevano la penisola Paolino venne eletto vescovo: era all’incirca il 409. L’ondata barbarica passò anche per la Campania saccheggiando città e campagne. Probabilmente egli fu per breve tempo ostaggio: su quell’episodio la fantasia popolare ricamò più tardi la leggenda della volontaria prigionia in Africa.
Poco sappiamo degli anni in cui fu vescovo: qualche lettera su problemi pastorali la scrisse ad Agostino, in Africa. Ma la maggior parte dei suoi scritti in prosa è andata perduta. L’ultima lettera, scritta ai solitari Eucherio e Galla negli anni 423-426, rivela quanto amasse i contatti con gli amici e con gli asceti del suo tempo secondo il suo carattere socievole. Morì il 22 giugno 431 perdonando tutti gli eretici che aveva cacciato dalla Chiesa e proponendo loro la riconciliazione. La sua tomba fu posta accanto a quella del suo patrono Felice, a Cimitile.
Dopo le distruzioni causate dalle invasioni vandaliche del 455 e dei primi anni del VI secolo, il santuario venne quasi dimenticato. All’inizio del XI secolo il suo corpo fu trasferito a Roma nella chiesa costruita dall’imperatore Ottone III all’isola Tiberina e dedicata al vescovo di Praga, Adalberto, vissuto nel X secolo. In quella chiesa, che poi s’intitolò a san Bartolomeo perché vi furono traslate successivamente le reliquie dell’apostolo, rimase fino all’inizio di questo secolo finché, il 15 maggio 1909, fu riportato nella cattedrale di Nola per volontà di san Pio X. Oggi le reliquie, racchiuse in un’urna di bronzo, sono custodite sotto l’altare della quarta cappella nella navata laterale sinistra.
Nella cattedrale il busto reliquiario d’argento del XVII secolo, che viene portato in processione il 22 giugno, raffigura il santo in vesti vescovili con mitra e pastorale secondo l’iconografia tradizionale dove talvolta appare anche un altro attributo, le campane, che in riferimento a una leggenda priva di fondamento storico sarebbero state inventate da Paolino.
Sotto la chiesa, nella cripta, sono conservati secondo la tradizione anche le reliquie di san Felice che vi sarebbero state traslate nel 1395 quando venne inaugurata la primitiva cattedrale dopo lo spostamento della sede vescovile da Cimitile a Nola. Sulla lapide, dietro. la quale vi sono i suoi resti, un reliquiario in metallo dorato del XIX secolo contiene un piccolo calice dove, il 15 novembre, sua festa liturgica, e l’8 dicembre si raccoglie un liquido proveniente da un canaletto inserito in una fessura del marmo: i fedeli nolani lo chiamano «manna» e lo considerano come segno di protezione del santo.